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LA CRISI SIRIANA E I NUOVI EQUILIBRI GEOPOLITICI IN AMERICA LATINA

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Il protrarsi degli scontri armati in Siria è l’ultima prova dell’incapacità statunitense nel farsi gendarme del mondo e artefice di un destino unipolare nelle relazioni internazionali. I casi Iraq e Afghanistan avevano di fatto già sancito l’impossibilità da parte degli Usa di stabilizzare quadranti di crisi come avvenuto negli anni ’90 nei Balcani e nel Kuwait. Nuovi attori globali stanno logorando la leadership statunitense in un periodo di grosse disparità di crescita economica tra Occidente (Europa, Nord America) e Oriente (Cina, India, Sud-est asiatico). Seppur impari il confronto sul piano militare, le medie potenze (Brics in testa) adesso hanno lo spazio necessario per poter guadagnare in capacità di influenza. Non fa eccezione il “cortile di casa” di Washington con la forte ascesa del Brasile come naturale unico leader dell’America del Sud.

 

 

La posizione dell’America Latina sulla guerra in Siria

La ricerca infruttuosa di alleati per un’operazione congiunta in Siria, ha di fatto impedito agli Stati Uniti di avvalorare la propria ingerenza negli affari interni del regime di Al-Asad: forzando il diritto internazionale con una richiesta di azione isolata non ha fatto altro che riportare la questione sul tavolo della diplomazia. Al governo USA non erano certo necessari gli armamenti di altri paesi per condurre un’operazione chirurgica contro l’esercito siriano ma erano essenziali per una giustificazione mediatica dell’intervento come è stato per l’Iraq. La mancata approvazione dei Comuni britannici all’operazione  e la probabile sfiducia dello stesso Congresso hanno impedito ad Obama una forzatura contro l’immobilismo del Consiglio di Sicurezza.

La concreta possibilità che la Siria liberata divenga uno Stato fallito, ripetendo la storia irachena o afgana, ha portato le suscettibili opinioni pubbliche dei paesi “occidentali” a schierarsi contro la guerra. I governi alleati Usa – in un epoca delle relazioni internazionali nella quale la politica estera è fortemente determinata da quella interna –  ne stanno prendendo atto. In Europa le voci sono dunque contrastanti (i vertici di Gran Bretagna e Francia sono favorevoli, di contro si annovera l’atteggiamento attendista di Italia e Germania). Di certo Obama non avrebbe trovato nessun tipo di appoggio nemmeno in America Latina dove c’è stata invece un’univoca voce schierata contro la guerra in Siria.

Nel sottocontinente americano gli Stati, a differenza di quelli europei, non hanno assunto posizioni sfavorevoli all’intervento armato dettate da fattori contingenti, economici e mediatici (costi della difesa aumentati in un momento di crisi uniti alle sorti avverse delle primavere arabe nel Medio Oriente), ma da motivazioni politico-ideologiche più profonde. Motivazioni che sono state alla base della dimostrazione della forte unione che contraddistingue i paesi latinoamericani a livello regionale: basta citare il consesso all’interno del quale l’intero continente ha rafforzato la propria posizione contraria alla guerra siriana ( VII vertice Unasur andato in scena il 30 agosto scorso a Paramaribo in Suriname). Oltre alla contrarietà assoluta ad un intervento unidirezionale in Siria, i paesi latini sono concordi anche sulle modalità di risoluzione del problema: la diplomazia onusiana.

Quello della primazia delle Nazioni Unite è la prima causa ideologica contro una guerra in Siria da parte dei paesi latini. La risoluzione delle crisi deve passare per le vie diplomatiche coinvolgendo quanti più attori possibili affinché i processi di pace abbiano il più largo consenso e successo. Questa posizione sottende motivazioni sia geopolitiche che strategiche. Le prime rispondono a quella che può essere considerata “la via latina” al Sud America essenzialmente antiamericana. Gli Stati del sottocontinente dopo la fine della Guerra Fredda sono alla ricerca di una emancipazione politica dagli Stati Uniti affinché questi ultimi non siano più capaci di esprimere un’egemonia netta sulle sorti degli Stati sovrani come avvenuto tra gli anni ‘60 e ’80. Sia i paesi storicamente più vicini al liberismo anglosassone che quelli più ostracizzanti, puntano a non seguire fedelmente le politiche estere statunitensi e ad affermare una propria indipendenza che viene svelata e corroborata attraverso un principio fondamentale delle proprie relazioni internazionali: la non ingerenza negli affari interni dei Paesi terzi. Del resto il pacifismo è proprio uno dei risvolti del processo di democratizzazione dell’area latinoamericana. L’integrazione regionale difatti è prosperata anche attraverso l’assenza di conflitti e rivendicazioni tra gli Stati aderenti alle varie comunità puntando all’arbitrato come mezzo di risoluzione delle controversie.

Esistono poi ovviamente motivazioni strategiche che interessano principalmente i paesi Alba. L’Alleanza Bolivariana ha stretto, in funzione antistatunitense, rapporti economici e commerciali con i regimi sciiti del Medio Oriente, soprattutto con l’Iran ( difensore del regime di Al-Asad).

Non mancano però neanche nel Sud America quelle dinamiche di politica interna necessarie ad influenzare i governi nella scelta di campo, seppur in modo minore rispetto a quelle di matrice ideologica. Tra Argentina, Brasile e Cile vivono all’incirca 15 milioni di turcos (discendenti di siriani, libanesi e palestinesi), segno palese della preferenza sudamericana quale mete di approdo dell’immigrazione mediorientale. L’aggravarsi del conflitto siriano con l’intervento estero potrebbe portare ad un massiccio esodo dei profughi: già ad oggi sono aumentate considerevolmente le richieste di visto per raggiungere i parenti soprattutto nelle comunità brasiliane a argentine. Soffrirebbe invece di incoerenza di politiche riguardo le minoranze il Cile, se sponsorizzasse un intervento a favore dei ribelli. Nelle ultime settimane si  sono aggravate le tensioni con la minoranza indigena dei Mapuche riguardo l’atavico problema dell’esproprio dei terreni. Porsi dalla parte della popolazione contraria ad Al-Asad significherebbe giustificare e dare valore universale alle rivendicazioni territoriali dei Mapuche. Un esempio, quello cileno, replicabile anche rispetto altre minoranze del Paraguay: non a caso gli scontri per le rivendicazioni territoriali sono costate a Ferdinando Lugo la destituzione attraverso impeachment.

Il caso siriano è la nuova prova comunque di un comportamento chiaro da parte di tutti gli attori latinoamericani: sul piano politico – nonostante su quello economico e commerciale  sono legati a doppio filo con gli Stati Uniti – le distanze aumentano. La politica estera ne rappresenta ormai la prova più evidente per marcare le differenze.

 

 

Il ruolo del Brasile

L’unione di intenti politici dell’America Latina dovrà però trovare un portavoce stabile che ne rappresenti gli interessi e funga da sintesi. L’attore dal respiro globale presente nel Sud non può che essere il Brasile. Paese più grande e popoloso del sottocontinente è da sempre alla ricerca di un seggio permanente all’interno del Consiglio di Sicurezza e alla ricerca di una leadership  regionale insistendo sulla via diplomatica con la quale imporsi come referente non solo dell’America Latina, ma anche dell’asse Sud-Sud terzomondista alternativo all’idee di politica estera americana.

Il ruolo che il Brasile vuole però consolidare non è così scontato. Una media potenza per divenire grande non può e non deve solo migliorare i propri fondamentali macroeconomici, ma deve essere anche portatrice di una idea di sviluppo assertiva e coinvolgente. Il Brasile non ha un profilo definito sia per ragioni di politica economica che di relazioni multilaterali.

Le grandi manifestazioni di piazza che hanno invaso le più grandi città brasiliane nell’ultimo anno sono il sintomo di una sofferenza economico-sociale solo in parte coperta dalle grandi percentuali di crescita avutesi dal 2000 – quando in dieci anni il Pil è quintuplicato – e arrestatesi di colpo nel 2010. In quell’anno il tasso di crescita del PIL si attestò sul 7,53% per calare bruscamente nel 2011 e nel 2012 rispettivamente al 2,73% e allo 0,87%. Due anni negativi per una economia “emergente” e in forte crescita (risultati che per un’economia matura rappresenterebbero una recessione). La riduzione di investimenti pubblici nel welfare ha colpito le fasce più deboli della popolazione  – giovani e famiglie dal reddito medio-basso – che con difficoltà riescono a seguire l’apprezzamento del real senza i sussidi adeguati. La povertà in Brasile è una piaga sociale estesa dato che esiste una delle massime sperequazioni presenti nell’America Latina – causata anche da una mancata ridistribuzione del reddito agricolo per via dei latifondi tutt’ora esistenti e da una urbanizzazione rilevante nel sud-est del paese. La mancanza di una stabilità interna, data da una crescita diseguale delle classi economiche legate all’ampio tasso di criminalità, impedisce al Brasile di concentrare tutte le sue energie nella propria proiezione esterna, nello sviluppo di un soft power che permetterebbe a Brasilia di esportare in primis la propria ricetta politica per tutto il Sudamerica.

La crescita rallentata sta impedendo anche l’immissione di maggiori risorse economiche nello sviluppo del Mercosur – il mezzo economico-politico di cui il Paese si serve per attrarre a sé i paesi della regione. L’interdipendenza dei prodotti è il primo passo necessario a far crescere tutte le economie ma è in capo al Brasile che devono essere imputati i costi di allineamento. Le differenze nella bilancia commerciale con gli altri partner della regione impediscono a questi ultimi di crescere a ritmi “brasiliani”. Sta quindi ai lusitani gravarsi di costi di partenariato per migliorare il settore industriale dei vicini e renderli più concorrenziali, altrimenti la comunità economica che il Brasile auspica per l’intera regione non sarà attuabile: gli altri paesi vedrebbero una minaccia di inclusione politica per via di una opportunismo economico. La convergenza delle due direttrici economica e politica è necessaria affinché siano gli stessi paesi dell’America Latina ad investire il Brasile del compito di rappresentare un intero sottocontinente nel consesso internazionale.

Il binomio è dunque essenziale al Brasile per divenire vera potenza egemone della regione sudamericana. Da un ventennio questa posizione dipende sempre più dai propri mezzi e non da una imposizione alleata statunitense (come nella seconda metà del XX secolo) e questo appare il momento giusto per approfittare della temporanea decadenza di Washington in politica estera.

 

 

* Salvatore Rizzi è collaboratore CeSEM

 

 


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